LINGUAGGI E CONCETTI NEL DIRITTO

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    Al di là di qualunque visione o concezione si possa avere del Diritto come tale (trascendentale o categoriale, umano o divino, naturale o positivo, realista o idealista), non è comunque possibile evitare la ‘strettoia’ dello Ius dicere: la strozzatura della clessidra che regolarizza il fluire della vita nel Diritto e del Diritto nella vita attraverso la parola. L’attività giuridica è attività essenzialmente comunicativa: scambio di significati e valori condivisi o da condividere, codificazione e trasmissione di significati e valori che rendono possibili nuovi incontri, nuove convivenze ed esperienze. Tutto attraverso la parola… quella parola però che non nasce col singolo uomo ma che ciascuno impara dai suoi simili, in luoghi, contesti e situazioni specifici e mutanti. Quella parola che può crearsi dal nulla dinnanzi alla novità di un’esperienza imprevista; quella parola che non basta ‘dire/udire’ (=dictum) ma che bisogna anche ‘capire’ (=intentum) ed assumere (=actum).

    La dipendenza del Diritto dal linguaggio è un dato di fatto ultramillenario di cui il XX secolo ha preso coscienza in modo tanto esplicito quanto radicale soprattutto attraverso la riflessione filosofica, con le varie Teorie dell’interpretazione sviluppatesi in ambito analitico (tendenzialmente anglosassone) ed ermeneutico (tendenzialmente europeo continentale). Una mole sconfinata di riflessioni che hanno portato in evidenza problemi di vario tipo e di grande profondità che in precedenza non era stato possibile affrontare se non in situazioni e circostanze assolutamente ridotte. Anche la nascita e lo sviluppo dei mass media ha fatto da amplificatore tanto delle potenzialità che delle problematicità del linguaggio a causa soprattutto del vertiginoso aumento sia del numero delle comunicazioni, sia della loro (non) qualità. Non di meno le stesse attività giudiziarie e regolamentari sono cresciute –almeno nel mondo occidentale– a livelli mai neppure ipotizzati in precedenza.

L’approccio ‘comunicativo’, tuttavia, non è quello fondamentale in campo giuridico: la prassi ha infatti ampiamente dimostrato il valore maggiore dell’approccio ‘espressivo’. Il vero problema, cioè, non è ‘come’ dire ma ‘cosa’ dire nel momento in cui si cerca di esprimere con le parole la complessità del vissuto umano approcciato in chiave giuridica. Ed è proprio nella –iniziale– fase espressiva che entrano in gioco non le parole soltanto, ma anche i linguaggi (=i modi di dire le cose: il dictum) ed i concetti (=quello che s’intende effettivamente dire: l’intentum).

I concetti, però, non esistono in natura ma dipendono dal linguaggio disponibile ad ogni singolo all’interno di una specifica esperienza, cultura e civiltà, soffrendo le strettezze dell’espressività…  anche per mancanza dei termini adeguati.
Quando, poi, i Sistemi giuridici da ‘giurisdizionali’ (common Law e canonico ‘classico’) diventano ‘normativi’ (civil Law e canonico codificato) il problema si complica ulteriormente poiché non sono più i fatti come tali ad essere raccontati, valutati e ‘giudicati’, con tutta la concretezza ed effettività del singolo caso, ma è lo schema legale previo che deve filtrare il vissuto, individuandone gli elementi ed i fattori legalmente rilevabili e rilevanti per poi valutare e ‘giudicare’ se/quanto/come le condotte umane siano o meno riconducibili allo schema (=fattispecie) previsto come virtuoso o delittuoso dalla Norma. La supervalutazione ‘espressiva’ che si genera in questo contesto rischia così di trasferire una parte preponderante del ‘carico’ giuridico non ai fatti ma al modo di indicarli, qualificarli, parlarne… rischiando d’interessarsi maggiormente della ‘malattia’ che del ‘malato’.
Proprio la fase/componente espressiva dell’attività giuridica costituisce l’interesse peculiare della presente riflessione, che conseguirà il proprio fine quando ciascuno giungerà a chiedersi –sempre– quale sia la reale corrispondenza tra le parole (giuridiche) che utilizza e la realtà personale-esistenziale di cui vorrebbe trattare.


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